Misurare il lavoro. Ha ancora senso farlo in ore?
La buona notizia è che con il passare dei decenni, con l’aumento delle domande circa l’equilibrio fra lavoro e vita privata, le ore complessive di lavoro sono andate diminuendo, e si è scoperto che questo in realtà non diminuiva affatto la produttività complessiva, anzi la migliorava.Durante la Rivoluzione Industriale, le persone lavoravano in media dalle 10 alle 16 ore al giorno. Fu Henry Ford a introdurre la settimana lavorativa di 5 giorni e 40 ore negli anni ‘20. Però poi negli Stati Uniti, durante la Grande Depressione, accadde un fatto singolare: molte aziende decisero di ridurre drasticamente le ore di lavoro anziché licenziare dipendenti. Il magnate del settore dei cornflake W.K. Kellogg scelse, ad esempio, di ridurre le giornate di lavoro a 6 ore. In questo modo riuscì ad assumere 300 nuovi dipendenti, e dopo 5 anni il numero di incidenti era diminuito del 41%, probabilmente in virtù di una minore stanchezza sul lavoro, e i dipendenti lavoravano in modo più efficace.Il concetto è arrivato fino ai giorni nostri: si basa infatti sullo stesso principio anche l’istituto sindacale italiano del “contratto di solidarietà”, un ammortizzatore sociale pensato per evitare licenziamenti in caso di crisi aziendale mediante la riduzione delle ore di lavoro e della retribuzione dei lavoratori.Il governo inglese, invece, durante la Seconda Guerra Mondiale cercò di aumentare la produzione bellica, allungando la settimana lavorativa e portandola da 56 a 69 ore. Il risultato fu che la produttività vide un calo del 12%.“Lavorare meno, lavorare tutti” del resto era uno slogan della sinistra italiana negli anni ’70, e si basava su un principio semplice: la produttività resta invariata, se invece di lavorare per 8 ore una sola persona, lavorano due persone per 4 ore ciascuno. I problemi causati dall’aumento di costi amministrativi sono oggi brillantemente risolti da sistemi automatici di gestione paghe, ad esempio, per le quali produrre 500 buste paga o 1.000 non comporta alcun costo aggiuntivo.I paesi nordeuropei, sempre all’avanguardia su queste tematiche, già da alcuni anni stanno facendo sperimentazioni in tal senso. Il municipio di Göteborg, in Svezia, ha deciso di tagliare l'orario in ufficio dei suoi dipendenti (passando da 40 a 30 ore) mantenendo lo stesso stipendio. La produttività è aumentata in maniera proporzionale alla diminuzione dell'orario lavorativo. La riforma, inoltre, ha permesso di avere molte meno assenze per malattia. La Toyota, sempre a Göteborg, è passata alle sei ore giornaliere ben tredici anni fa con il risultato che la società ha avuto un più basso tasso di avvicendamenti tra i lavoratori e un incremento di utili; il suo personale è diventato più felice e altrettanto produttivo; i tassi di employee retention sono più elevati ed è diventato più facile attirare nuovi talenti.Lo stesso sta accadendo in Olanda, Danimarca, Norvegia.Facciamo nostre, quindi, le conclusioni di Frederik Anseel, professore di Psicologia del Lavoro presso l’Università di Gand, secondo il quale il problema sta nel fatto che continuiamo a esprimere il lavoro in termini di ore. “Il tempo è il peggior criterio possibile per misurare il lavoro. Non comunica nulla sulla qualità del lavoro, sull’efficacia, sull’innovazione, sugli incidenti o sulla cordialità nei confronti dei clienti. Il tempo è un vestigio della seconda Rivoluzione Industriale, in funzione del quale il nostro ideale economico è ancora un orario di lavoro dalle 9:00 alle 17:00.”Ergo: lavorare meno non diminuisce la produttività, che va quindi misurata con altri parametri, che non siano più strettamente le ore (il tempo) di lavoro. Qualche spunto di riflessione? L'incremento della produttività in ufficio é il nostro lavoro, ed a Teamleader siamo sempre molti attenti ad ogni apporto costruttivo: facci sapere cosa ne pensi nei commenti qui sotto.
Perchè il tempo che si perde non torna più, e con esso non torna più la produttività aziendale.